Testimonianze: quella notte raccontata da chi c’era

Giuseppe Arena, Direttore delle Professioni sanitarie

Giuseppe Arena oggi è il direttore delle professioni sanitarie di ISMETT e ha 400 persone da coordinare, ma all’epoca era un giovane infermiere di 24 anni. Negli anni precedenti aveva fatto un po’ di esperienza come assistente domiciliare a Cologno Monzese e a Palermo, poi entra in ISMETT e a maggio del 1998 viene mandato dall’Istituto negli Stati Uniti insieme ad altri 14 infermieri. Destinazione: l’UPMC Presbyterian Hospital di Pittsburgh, dove il trapianto d’organi aveva una lunga e importante tradizione. Lì rimane un anno per la formazione professionale. E la sua vita cambia. “E’ stata un’opportunità che tutti dovrebbero avere, un grande arricchimento professionale e umano. Abbiamo acquisito nuove conoscenze sia teoriche che pratiche perché il tirocinio ci impegnava ogni giorno, ognuno di noi lo svolgeva in un settore particolare, io ad esempio ero infermiere di terapia intensiva”.

Poi Giuseppe torna a Palermo e con lui tornano gli infermieri italiani, ma anche diversi infermieri americani per consentire un proseguimento della formazione. “Da maggio a luglio abbiamo preparato il reparto che è stato il nucleo originario di ISMETT: 4 letti in terapia intensiva e 16 posti letto in generale. Eravamo piccoli e senza storia, perché appena nati, ma le persone hanno cominciato a fidarsi di noi perché capivano che alle nostre spalle c’era l’esperienza americana e, naturalmente, il nostro entusiasmo”. L’ISMETT di quei giorni era un posto particolare dove la lingua inglese si intrecciava all’italiano, dove si potevano vedere tanti giovani e dove tutti si sentivano di partecipare a un grande progetto, dove la possibilità di crescere era data a chiunque, dove il trasferimento di conoscenze era considerato un bene primario. 

Il giorno del primo trapianto di fegato, Giuseppe era di turno in terapia intensiva: “Ricordo che eravamo tutti in fibrillazione perché sentivamo il peso della responsabilità: negli Stati Uniti eravamo stati per lo più osservatori, ora eravamo protagonisti e non si doveva sbagliare”. Le relazioni con Pittsburgh sono molto importanti ancora oggi che l’ISMETT è cresciuto: “Quando c’è qualche dubbio possiamo confrontarci con i colleghi oltreoceano, ma ora il rapporto è diventato paritario e a volte sono loro che chiedono un supporto a noi, dalla  Sicilia”.

 

Salvo Gruttadauria, Direttore del Dipartimento per la Cura e lo studio delle patologie addominali e dei trapianti addominali

Salvo Gruttadauria lo ricorda bene quel primo trapianto di fegato in Sicilia: “Partecipai al prelievo dell’organo a Catania e poi al trapianto a Palermo. Circa 23 ore in sala operatoria”. Salvo aveva 29 anni ed era il primo fellow di ISMETT: “Dopo la specializzazione in chirurgia generale, venni preso per una sorta di ‘superspecializzazione’ che seguiva il modello della fellowship americana”. Per partecipare ai trapianti di fegato, fino a quel momento si era spostato dalla sua Sicilia prima a Bologna, poi in Nebraska, poi a Pittsburgh. “Qualsiasi chirurgo  siciliano che  volesse occuparsi di trapianto sapeva che doveva andare via: sicuramente fuori dalla regione, forse fuori dall’Italia. Quell’intervento di vent’anni fa cambiò le carte in tavola per i medici ma anche per i pazienti perché si invertì la tendenza dei viaggi della speranza”.

Salvo quel giorno di luglio lo ricorda come un giorno lunghissimo e caldo: anche in sala operatoria la temperatura era alta, un po’ perché l’impianto dell’aria condizionata faceva le bizze, un po’ forse perché tutti sentivano sulle spalle la responsabilità di quel momento. “Oggi un trapianto di fegato dura in media 6 ore, è una procedura più standardizzata e nel 70% dei casi non richiede trasfusioni di sangue, ma all’epoca gli interventi erano molto più lunghi e, come tutti gli interventi innovativi, comportavano più rischi e difficoltà. Ma tutto andò bene”.

Oggi Salvo Gruttadauria dirige il dipartimento dei trapianti addominali e nel suo dipartimento lavorano molti siciliani come lui. Sui trapianti di fegato, ISMETT ha raggiunto risultati di altissimo livello, quello che ancora si potrebbe migliorare è il numero di organi a disposizione. “La nostra regione fa ancora fatica ad avere un numero adeguato di donazioni, anche se in teoria potrebbe raggiungere l’autosufficienza. In attesa che le cose cambino, noi non ci fermiamo e diventiamo sempre più bravi nell’utilizzare donatori marginali e nel praticare  trapianti da vivente”.  La storia di questi vent’anni, vista da questo angolo di mondo, ha qualcosa da insegnare un po’ a tutti noi e Salvo Gruttadauria quel qualcosa lo riassume così: “Se si sceglie il modello giusto da seguire,  si possono realizzare obiettivi prima considerati impossibili”.

 

Pietro Conti, Responsabile del Servizio di Manutenzione degli Impianti

Quel giorno a Palermo era caldo: 42-43 gradi centigradi. I gruppi frigo, le macchine che raffreddano le sale operatorie, non ce la facevano a contrastare quelle temperature così alte, si scaldavano e non producevano aria sufficientemente fresca. Un aumento della temperatura in sala operatoria voleva dire far crescere il rischio per il paziente di contrarre infezioni. Così, quando l’intervento iniziò, io e un tecnico dell’ARNAS Civico salimmo sul tetto per gettare acqua fredda su quelle macchine. Rimanemmo là sopra tutta la notte ad annaffiare l’impianto”.

Pietro Conti oggi è responsabile della manutenzione degli impianti di ISMETT, ma venne assunto un mese prima di quel luglio 1999 come operaio manutentore. Il suo compito era  occuparsi del funzionamento di tutti gli impianti: dai complessi apparati elettromedicali ai letti.

“Mi ricordo che un paio di volte mi toccò entrare in sala operatoria durante l’intervento e infilarmi sotto il letto su cui giaceva il paziente per sbloccare il meccanismo che lo faceva alzare e abbassare”.

Tempi da pionieri: “Eravamo pochi e dovevano fare tutto. Il problema andava risolto e non si guardava all’orario di lavoro: io sono arrivato a fare 72 ore consecutive in servizio. I trapianti allora duravano in media 14 ore e io avevo l’obbligo di rimanere in ospedale per tutta la durata dell’intervento. A volte, finito uno, ne cominciava un altro: l’équipe medica cambiava, ma il tecnico era sempre lo stesso: io”. Conti ricorda l’entusiasmo di far parte di quella squadra: “Come cittadino palermitano, avevo la percezione che la sanità in Sicilia non funzionasse come avrebbe dovuto. L’idea di far parte di un’eccellenza nel mondo della sanità, un posto a Palermo dove si salvavano vite e dove la meritocrazia finalmente contava, mi riempiva di entusiasmo”.