Non ho più un rene ma adesso al mattino quando mi sveglio posso baciare mia moglie e assentandomi dentro quei baci dirle che può stare tranquilla.

Un bacio su un occhio, uno sull’altro e un morso leggero sul naso. Come ogni anno da quando ci siamo sposati, solo che adesso bacio la sua fotografia.

Nostro figlio ha iniziato ad avere problemi renali a ventuno anni. Ricordo l’agitazione di mia moglie. Quando, molti anni dopo, sono riuscito a donargli la salute lei non c’era più, ma in qualche modo c’era.

“Deve dimagrire dieci chili se vuole donare il rene” mi avevano detto i medici. Solo grazie alla forza che mi dava il pensiero di lei sono riuscito a dimagrire undici chili in due mesi e mezzo.

Ogni mattina mi sveglio, un bacio su un occhio, uno sull’altro e un morso leggero sul naso, preparo la sacca, metto dentro la cuffia blu, l’accappatoio giallo e il costume da bagno.  Nuoto e penso. Una persona continua nell’altra. Ognuno è parte dell’altro, in mio figlio c’è un pezzo di suo padre e c’è anche sua madre.

Stava per arrivare alla dialisi, ero disperato. Un martedì ci hanno detto che potevamo fare l’intervento domenica, da quella notizia è stata solo gioia, mai paura. Era aprile, avevo settant’anni. Troppo anziano si potrebbe pensare, ma stavo bene, tutti gli accertamenti lo confermavano e soprattutto lo sapevo io.

Un bacio su un occhio, uno sull’altro e un piccolo morso sul naso. E sono andato a operarmi. Prima sono entrato io, poi mio figlio. Eravamo tranquilli, c’era una pace che non so spiegare, ero forte. Le sale operatorie erano attaccate, ci divideva a un tendone. Era mattina ed erano i primi di aprile, il cielo era nuvoloso, erano stati giorni nuvolosi e freddi. Il giorno dopo è arrivata la primavera.

Un bacio su un occhio, uno sull’altro e un morso leggero sul naso. “È andata bene, stiamo bene. Hanno trovato un rene meraviglioso” le ho detto. Negli anni a seguire, ormai sono 5, non ho avuto nessuna conseguenza, anzi il mio stile di vita è migliorato, continuo a nuotare e a prendermi cura dell’alimentazione. Ogni giorno saluto mia moglie, le racconto le giornate, le bellezze, le dico che donando un rene le sono ancora più vicino: nostro figlio è generato da noi, due volte.

Non ho più un rene ma adesso so cos’è la bellezza. Sono una maratoneta, per me la corsa è fondamentale, è uno stile di vita, le decisioni più importanti le ho prese correndo, come quella di donare a mio nipote. L’ho presa con il cuore ma anche con la testa: si può vivere benissimo con un solo rene.

Il 18 dicembre 2019 abbiamo fatto il trapianto: lui aveva diciannove anni, io quarantasei. Ci separava solo una tenda e al risveglio dall’anestesia ho sentito la sua voce che chiedeva di me, il suo primo pensiero sono stata io. Mio nipote non esprime l’affetto a parole ma i suoi gesti valgono molto di più. “Uniti per sempre” ha scritto mio fratello su una nostra foto.

Dopo la donazione avevo paura che come sportiva avrei avuto dei limiti. Adesso so che i limiti sono solo mentali, se riesci a superarli puoi anche scoprire degli aspetti migliori di prima. Così ho scelto di fare un patto con la salute: mi sono data un anno di tempo, volevo capire come reagiva il mio corpo. E per un anno ho camminato. Ogni giorno provavo ad accorciare il tempo con cui percorrevo il tratto di strada sotto casa che costeggia il mare. Uscivo la mattina presto, prima di andare al lavoro, ascoltavo la musica e camminavo. Poi ho spento la musica, ho iniziato ad ascoltare e mi sono accorta di tutta la bellezza che mi appartiene e mi circonda. Quando corro, al mattino, sento l’odore del mare, quello della giornata appena iniziata, la salsedine che arriva fino alla pelle, guardo i miei passi di corsa, il loro rumore sulla terra, e poi all’orizzonte le isole Eolie con tutta la loro bellezza. C’erano sempre state eppure non le vedevo. Tutto adesso è parte di un’unica bellezza, anche i miei passi lenti che si trasformano giorno dopo giorno in passi di corsa. Quando ho capito che il mio corpo reagiva bene è stata una rinascita: un conto è che te lo dicono i medici, un conto è sentirlo veramente. Nel 2022 ho fatto la mia prima gara, è stato l’inizio di una nuova vita. Nel 2023 mi è stato assegnato un premio dalla Federazione italiana di atletica leggera per essermi distinta in determinazione e tenacia. Alla fine ho preso coscienza di avere qualcosa in meno nel corpo, ma tanto di più nell’animo.

Ho donato parte del fegato a mio padre. Lui ha dato la vita a me e io l’ho data a lui.

È sempre stato il mio eroe, da bambina nei weekend lo accompagnavo al lavoro, mi piaceva così tanto guardarlo mentre imbiancava i muri che senza accorgermene ho imparato a farlo.

Ci siamo ricoverati una domenica d’aprile, avevo ventitré anni e un figlio di un anno, lui ne aveva quarantacinque. Prima di entrare volevo dirgli “ti voglio bene”, ma non ci sono riuscita e allora gli ho detto “ci vediamo dopo”. Gli ho donato il 56% del mio fegato.

Dopo l’operazione ero spaventata, temevo che avrei avuto problemi. Però, proprio mentre pensavo a queste preoccupazioni, un ragazzo ha bussato alla porta. Non mi conosceva ma era venuto a darmi sostegno, aveva donato il fegato poco tempo prima e voleva rassicurarmi. Quel gesto è stato importantissimo, sono qui a raccontare la mia storia perché spero di potere restituire ciò che quel ragazzo ha fatto con me. Grazie all’operazione ho imparato quanto sia importante condividere le esperienze, fare le cose per gli altri. Così a mia volta l’ho fatto con altri pazienti. Ho imparato anche che la vita continua uguale. All’inizio avevo la sensazione di un vuoto, ma il fegato si rigenera e dopo quattro settimane ha preso la sua dimensione originaria. Lo stesso è avvenuto per mio padre. Questa cosa ci ha legato ancora di più. Dopo la donazione ho avuto due gravidanze, entrambe senza problemi, due anni dopo l’intervento è nata una femminuccia, l’ha battezzata mio padre. Vederlo lì, con mia figlia in braccio e pensare di avergli dato questa possibilità mi ha commosso. Ora apprezzo di più le piccole cose, la risata di mio padre mi riempie il cuore. Prima dell’intervento non riusciva più a camminare ed era sempre in malattia, adesso fa una vita normale. Sono trascorsi vent’anni dall’operazione, siamo stati il terzo trapianto dell’ISMETT. Credevo che dopo il trapianto sarei stata fisicamente più debole, invece sono più forte, molto parte dalla mente e io da allora ho preso in mano la mia vita.

All’inizio mi vergognavo della cicatrice, a mare sentivo gli sguardi addosso e allora indossavo solo costumi interi. Poi ho pensato che era un simbolo d’amore, di coraggio, rappresentava ciò che di bello avevo fatto per mio padre. Dopo otto anni dall’operazione ho comprato un bikini e l’ho indossato, era nero con un fiocco al centro. Sono andata al mare, gli sguardi della gente erano spariti.

Non ho più un rene ma adesso ho imparato a commuovermi. Si impara anche a piangere non solo a sbattere i pugni, la vera forza è concedersi la vulnerabilità. Esiste un prima e un dopo l’operazione: prima tutto l’amore era dentro di me, ero il padre all’antica che dettava le regole. Dopo l’amore che tenevo dentro è uscito e sono un padre che sa abbracciare.

Ho avuto i miei tre figli molto giovane, ho cinquant’anni e il più grande ne ha ventisette, è un ragazzone di un metro e novanta, fisioterapista, sportivo, bellissimo. Quando abbiamo scoperto i suoi problemi ai reni aveva poco più di vent’anni.

Dopo quattro anni gli ho donato un rene. Credo di avere fatto la cosa più naturale del mondo. Certe cose non si possono spiegare, certi fatti non si possono descrivere. Posso solo dire che quando dopo l’operazione sono riuscito ad andare nella sua camera non abbiamo detto una parola, ci siamo presi la mano, in silenzio. La mia mano nella sua, parte di me dentro di lui.

Prima non pensavo, volevo solo donare, dopo l’intervento sono arrivati i pensieri, temevo che la debolezza non sarebbe passata. Se non fossi stato più capace di lavorare, chi avrebbe mantenuto la famiglia? È necessario avere una buona forza fisica per fare il mio lavoro, sono un carpentiere tubista, mi occupo della costruzione e del montaggio di tubi, spesso lavoro dentro le navi. Lavoravo dieci, dodici ore al giorno, tornavo a casa sfinito, il tempo di cenare e andare a letto. La domenica andavo al mare, a Mondello, mi faceva bene camminare lungo la spiaggia. Non era un’abitudine che avevo, l’ho presa durante i mesi precedenti l’operazione ed è rimasta anche oggi.

Col tempo invece sono ritornate le forze, ho ripreso il mio lavoro senza problemi, posso fare tutto ciò che facevo prima. Oggi ho scelto uno stile di vita diverso, non lavoro più tutte quelle ore, dedico il tempo anche a me stesso, ai miei figli, cucino con loro, faccio jujitsu e danza. Adesso con mio figlio abbiamo un rapporto più profondo, è lui che controlla gli esami a cui ci sottoponiamo periodicamente. Mi dice che gli ho donato due volte la vita. Io gli dico che non deve sentirsi in debito, che l’amore per lui è tutto gratis.

Non ho più un rene e non è cambiato niente. Anzi è tornata la tranquillità.

Mia moglie aveva bisogno di un donatore e volevo essere io, ho faticato per convincerla. Da quando ci siamo conosciuti ci amiamo moltissimo. Lei aveva quindici anni e io diciotto, ci vedevamo in giro, ci incontravamo alle passeggiate lungo il corso, alle festicciole degli amici. Sono trascorsi più di quarant’anni e siamo ancora in fase di innamoramento, siamo già nonni e l’unica cosa che volevo era ritornare tranquilli. Quando mia moglie è andata in dialisi sono iniziati i veri problemi. La notte mi svegliavo continuamente a guardarla, per accertarmi che stesse bene. Sono stati anni duri, tutto sommato l’abbiamo vissuta bene perché sapevamo che c’era una possibilità per migliorare la nostra vita, ed era il trapianto.

Mia moglie non voleva che donassi, poi un po’ si è convinta. L’ha aiutata una semplice frase della dottoressa Buscemi che ci ha seguito nel processo del trapianto: “Guardi che Madre Natura ci ha dato due reni ma si vive benissimo anche con uno”.

Il giorno prima del ricovero siamo andati a fare una passeggiata a mare e abbiamo pranzato in un ristorante sulla costa. Ci piace passeggiare insieme.

La nostra operazione è stata a marzo, nel 2019, ero sereno, era tanta la felicità, di risolvere i suoi problemi che non mi importava altro. La mia unica preoccupazione era darle il miglior rene possibile. Invece mia moglie continuava a chiedermi di cambiare idea. Ero in sedie a rotelle, l’infermiera mi spingeva per portarmi in sala operatoria, lei ci seguiva e continuava a dire di non farlo, di ripensarci. Io sorridevo e le dicevo di stare tranquilla.

Dicono che la prima cosa che ho fatto al risveglio è stato chiedere di lei. Ci siamo visti dopo 4 giorni, ci siamo presi la mano. Io stavo bene poi lo è stata pure lei. Non ho più un rene e non è cambiato niente, stavo bene prima e sto bene adesso. Mia moglie invece sta molto meglio. Dopo l’intervento ci siamo sentiti liberi, senza la catena della dialisi.  Allora abbiamo deciso di fare un viaggio, siamo andati in Calabria e poi abbiamo fatto un giro della Sicilia, è stato bellissimo. E mia moglie che prima non voleva, adesso si è convinta.

Ho donato parte del fegato a mia figlia. Non ho fatto niente, ho solo completato ciò che avevo cominciato sei anni prima quando, nel 2015, è nata la mia bimba adorata. Dopo due mesi abbiamo scoperto che qualcosa non andava e ci hanno ricoverate in ospedale. Dovevo ancora imparare a fare la mamma e mi trovavo a fare la madre di una bambina che non stava bene e di cui ancora non si conosceva la malattia. Se piangeva non mi chiedevo soltanto se era per fame, per sonno ma anche se era perché provava dolore. Però abbiamo sempre vissuto tutto con serenità e con allegria.

Ogni giorno in ospedale le sistemavo la rete tubolare che teneva l’accesso venoso sul collo come una fascia per capelli su cui mettevo tanti fiocchetti colorati.

Si trattava di una malattia rara, sono stati anni di controlli, di farmaci, ma non ci siamo mai scoraggiati. Sapevamo che prima o poi avrebbe dovuto fare il trapianto.

“La mamma ha il fegato di brillantini” diceva mia figlia perché lo vedeva così nell’Eco Doppler, quando si colorava di rosso e di blu.

Il 9 febbraio 2022 ci siamo operate. Il giorno prima le ho acconciato i capelli con le treccine, così non le si sarebbero formati i nodi. Prima di addormentarmi ho chiesto ai medici di dirmi al risveglio se il mio fegato era buono e nel caso fosse stato troppo piccolo di darlo tutto a lei. Per me sono passati cinque minuti e invece l’operazione è durata circa otto ore. Il fegato andava bene, ne avevano preso circa il 30%.

Quando l’ho vista, di sera, ho allungato la mano, lei ha avuto un attimo di coscienza, ci siamo strette la mano e siamo state così. Quel momento è stato di rinascita. I primi giorni era nervosa, per calmarla le cantavo la canzone dei Me contro Te, Squadra Speciale. Adesso ha un’energia che non aveva mai avuto, se prima faceva danza classica ora fa ginnastica ritmica. Per me sono stati peggio i parti cesarei, la stanchezza lentamente è passata, guardo la mia cicatrice e ne vado fiera. È trascorso un anno e abbiamo festeggiato il nostro compleanno insieme. Lei è rinata il 9 febbraio e pure io. Dopo l’operazione mi ha detto: “Mamma, adesso anche io ho i brillantini del tuo fegato”.

Ho donato parte del fegato a mio figlio e lo rifarei altre cinque volte. Dopo la diagnosi, arrivata a un mese dalla sua nascita, abbiamo capito che l’unica cura esistente era il trapianto. Sono un medico, anche mio marito lo è, per questo non ho avuto dubbi: volevo essere io la donatrice, come madre avevo già trasmesso il mio patrimonio genetico, inoltre i tempi di attesa sarebbero stati molto più brevi.

Volevamo ricevere le cure migliori e così da Mosca siamo arrivati all’ISMETT di Palermo per essere seguiti dal professore Jean de Ville. Non è stato facile, abbiamo ottenuto il visto per motivi medici ma il problema è stato il viaggio: prima si poteva arrivare in poche ore, adesso ci vuole un’intera giornata, bisogna compiere un giro molto largo e anche dal punto di vista economico è molto oneroso.

Siamo arrivati a gennaio di quest’anno e a febbraio ci siamo sottoposti all’intervento, è stato più facile andare in sala operatoria che aspettare un organo, quando mi sono svegliata era tutto fatto. Come donatrice ho avuto un’ottima assistenza, i primi due giorni sono stati pesanti ma mi ha aiutato molto terapia del dolore, ora sto benissimo.

Quello che invece è andato oltre le mie aspettative è stato il cambiamento di mio figlio, oggi ha 7 mesi ed è un altro bambino. Già subito dopo l’intervento è avvenuta la rinascita: non aveva più la carnagione gialla di prima, sia la pelle che gli occhi erano visibilmente migliorati, erano bianchi.

Al quinto giorno sorrideva, era più vivace si vedeva che non soffriva. Dopo un mese mio figlio è diventato un bambino sano, dorme e mangia bene. Ho dato parte di me al mio bambino donandogli la vita, offrendogli un’opportunità di vivere, è una sensazione bellissima e solo così posso spiegare la profondità del nostro rapporto. Ci fermeremo a Palermo fino a prima dell’estate, fino a che i medici non riterranno le sue condizioni stabili.

A casa, a Mosca, ci aspettano mio marito e gli altri due figli, sono desiderosi di riabbracciare il fratello e hanno deciso che festeggeremo il suo compleanno due volte, il giorno della nascita e quello della rinascita.